Il cambiamento climatico è un affare di tutti

Lunedì 26 febbraio sono intervenuto a Bologna a #All4TheGreen, i festeggiamenti per i 30 anni dell’IPCC, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Ho incentrato il mio contributo al panel “Reshaping our future” (qui il video per chi avesse tempo e voglia di vederlo) sulla relazione fra cibo, clima e ambiente: una interconnessione che riguarda noi tutti, visto che le conseguenze ricadono sulla sicurezza alimentare e al tempo stesso ciò che ognuno di noi mette nel suo piatto condiziona l’intero sistema.

Questo perché diete basate di più su proteine vegetali favorirebbero la limitazione delle emissioni di gas serra dovute all’allevamento (per l’intero comparto agricolo, bovini in primis, stimabile dal 14 al 18 %).  Inoltre, anche le tecniche di “climate smart agriculture” (CSA) possono essere orientate alla minimizzazione delle emissioni di gas serra.

Il punto è che la tecnologia da sola non è sufficiente, se l’implementazione rimane limitata a poche aree virtuose al mondo. È importante proporre modelli di sviluppo economico attento al clima capaci di includere l’intera comunità mondiale. Ovvero, per rendere questo shift efficace a livello di climate change, vale il detto “Più siamo, meglio è”.

Il settore agricolo, che da economista agrario maneggio piuttosto bene, compreso l’uso razionale del suolo, si presta bene a questo scopo: perché, torno a ripeterlo, l’alimentazione riguarda ogni individuo sulla Terra.

Tra le istanze più immediate, la ricerca nella genomica vegetale – in cui è all’avanguardia la Fondazione Edmund Mach di Trento che presiedo –  è in grado di rispondere rapidamente alla richiesta di varietà adatte a condizioni climatiche avverse. E l’economia circolare insegna che il recupero energetico, da ogni fonte, ci dà l’importantissima chance di contenere le emissioni di gas che alterano il clima nei cicli produttivi.

Per essere breve, come approcciare questo tema? Qualcuno erroneamente pensa che se alcune zone diverranno non coltivabili basterà spostarsi su quelle che non lo sono oggi, a causa delle temperature troppo basse. Questa semplificazione non tiene conto né delle dinamiche sociali dell’umanità, né delle implicazioni umanitarie. Il problema va visto, più che nell’incremento di temperatura in sé, nella disparità con cui si manifesteranno gli effetti sulle zone coltivate della Terra.  Perché se tutto procede come gli scienziati hanno previsto, tra poco ci saranno luoghi dove sarà impossibile vivere e, viceversa, sarà obbligatorio scappare per sopravvivere. Nei Paesi in via di sviluppo l’83% degli impatti economici della siccità, che ovviamente il cambiamento climatico renderà più probabile, ricadono sull’agricoltura.

Infatti, è ormai un concetto assodato che la disponibilità idrica sarà sempre più alla base della genesi di nuovi conflitti: il numero di “profughi climatici” è destinato ad aumentare il numero, già oggi alto, di individui in fuga dalle loro rispettive aree di origine. In Africa al 2060 si stima che saranno 50 milioni. Ecco che allora è necessario approcciarsi al cambiamento climatico con una visione olistica, che tenga conto di tutti questi aspetti.

Autore dell'articolo: Segreteria