Sacchetti biodegradabili, polemica per un pugno di centesimi

Prima di intervenire – l’ho fatto su Terra e Vita – in merito alla questione dei sacchetti biodegradabili, i cosiddetti bioshoppers, ho lasciato che la “rete” si sfogasse. Certo, se ne legge di ogni. Su tutto, per la verità. Ma, forse, complici le feste, stavolta c’è stato un vero scatenamento. E anche parecchia strumentalizzazione.

Semplificando: lo scontro è fra associazioni ambientaliste, favorevoli, e associazioni di consumatori, contrarie. Le prime sostengono che siamo sommersi dalla plastica e che il costo lo abbiamo sempre pagato senza rendercene conto, essendo caricato sui prezzi al consumo della grande distribuzione. Le seconde che non deve essere l’utente finale a sobbarcarsi il costo del sacchetto, un ulteriore balzello fra i tanti che stiamo già subendo.

Di cosa stiamo parlando? Presto detto: di qualche centesimo a sacchetto e di qualche decina di euro all’anno per famiglia.

Chi ha ragione? Tutti, almeno in parte. La normativa è certamente migliorabile, come tutti i provvedimenti. In realtà basterebbe fare la spesa dal fruttivendolo e nelle vendite dirette in azienda agraria muniti di un proprio sacchetto e il problema sarebbe già risolto.

E poi, come ha osservato Milena Gabanelli sul Corriere, sembra quasi che questo scatenamento abbia oscurato gli altri aumenti, ben più severi per i bilanci familiari dei cittadini: autostrade, energie, gas.

Ciò che mi colpisce, invece, è che tutti – non solo in merito alla questione sacchetti – dimenticano di chiedersi una “cosa”. Da dove arriva quella mela, faccio un esempio, che oggi devono “cellofanare” nella plastica biodegradabile al supermercato e poi mettere in tavola? Anzi, due mele, perché come dimostrano recenti ricerche il detto: “una mela al giorno toglie il medico di torno” è bene raddoppiarlo. Quelle mele arrivano da un’azienda agricola (lo stesso ragionamento che sto per fare vale naturalmente per un qualsiasi prodotto agricolo: frutta, verdura, latte e latticini, carne…). Stiamo facendo, in altre parole, i conti senza l’oste. Anzi gli osti, visto che gli agricoltori sono ancora tanti.

Nessuno pare rendersi conto che l’agricoltura è l’anello più debole della filiera che porta i prodotti dai campi/allevamenti alle nostre tavole. Per le mele, e forse ho preso una delle produzioni meno in crisi, una differenza del prezzo di vendita di qualche centesimo al kg, pesa sull’azienda agraria non solo rispetto al guadagno dell’imprenditore, ma anche rispetto alla remunerazione, per esempio, del costo del lavoro: potatura, trattamenti, raccolta e così via.

Dico proprio qualche centesimo, che dipende da tanti fattori non proprio tutti governabili dall’uomo: il tempo atmosferico, il caldo o il freddo, le malattie delle piante e poi naturalmente dal gioco domanda-offerta, dalle trattativa con la grande distribuzione organizzata e il relativo potere negoziale, dalla concorrenza di altri paesi dove il costo di produzione è più basso. E potrei andare avanti a lungo, ma l’ho già fatto in tanti articoli e in diversi libri.

Pochi centesimi, che, se solo ce ne rendessimo conto, sarebbero la giusta remunerazione che va a pagare il lavoro, la legalità, la qualità, la sostenibilità, l’origine… Per questi valori fondamentali saremmo disposti a fare un piccolo sforzo?

Il fatto è che non ci pensiamo neanche. Qualcuno mi dirà: se dovessimo aggiungere qualche altro spicciolo, il costo aumenterebbe ancora. Giusto. Il fatto è che noi gli alimenti li vogliamo pagare poco, anzi sempre meno. Spendiamo più volentieri per altro, spesso per soddisfare qualche bisogno inutile. Invece mangiare è un bisogno essenziale. Che ha un forte impatto. Ci dimentichiamo che il cibo buono fa bene alla nostra salute, a quella un po’ più grande che è rappresentata dal nostro ambiente, al portafogli di chi ha la prima responsabilità di curare la terra: l’agricoltore. Vogliamo tenerne conto una volta per tutte?

Autore dell'articolo: Segreteria